Una stanza in Italia: Venezia
- Antonella
- 1 lug
- Tempo di lettura: 2 min
🪞La stanza sospesa sull’acqua – Venezia
È nascosta al secondo piano di un palazzetto affacciato sul Rio di San Barnaba. Dalla finestra si vede una gondola passare lenta, con il suo carico di sguardi stranieri e malinconie italiane. Ma dentro, la stanza racconta tutt’altro: è un atlante veneziano in miniatura, una capsula di bellezza viva.

Il pavimento è in terrazzo veneziano, punteggiato d’oro. Ogni passo sussurra i secoli che ci hanno camminato sopra. Un lampadario di Murano, grande come un sogno barocco, scende dal soffitto con i suoi vetri soffiati color rubino, smeraldo e cielo. Si muove piano, come se respirasse ancora il fiato dell’artigiano che l’ha creato.
Sulle pareti, stampe antiche mostrano i Dogi in posa regale, ma in un angolo c’è anche un ritratto dimenticato di una donna in velluto blu: forse una cortigiana colta, o la figlia di un mercante armeno. Venezia non giudica, conserva. Su un tavolo di noce, ancora lucidato a mano, ci sono strumenti di lavoro: pinze da vetraio, punzoni da doratore, ago e filo da impiraressa. È una stanza che ricorda le mani prima delle parole. Odora di sole e acqua salmastra, di tempo e menta, di damasco e pioggia sottile.
Sembra vuota, eppure ci sono tutti: i gondolieri con la voce che rimbalza sotto ai ponti, le nobildonne con lo sguardo trafitto da ventagli di seta, i mastri vetrai che modellano la luce, le calli, i silenzi, la Storia intera che si è seduta almeno una volta su quella sedia accanto al balcone. È una stanza che non ha bisogno di parole, ma se l’ascolti, ti dice tutto quello che c’è da sapere sull’Italia: che la bellezza qui non è un ornamento, ma una condizione naturale.
✨ Postilla
Forse la donna che un tempo abitava quella stanza era un’impiraressa. Così si chiamavano le pazienti e abilissime artigiane veneziane che, con occhi aguzzi e dita sottili, infilavano una per una le perle di vetro in lunghissimi fili da esportare in tutto il mondo. Le impiraresse sedevano per ore accanto alla luce, spesso su uno sgabello basso, con una ciotola di conterie colorate sul grembo e un ago sottile tra le mani. Parlottavano tra loro, cantavano a mezza voce, raccontavano storie. Non erano solo lavoratrici: erano custodi di ritmo e colore, anime domestiche di una Venezia che viveva anche nelle calli meno illuminate.
E il vetro di Murano, che illuminava i lampadari e vestiva le perle, nasceva – e nasce ancora oggi – dal fuoco e dal soffio. Un tempo, i mastri vetrai lavoravano all’alba, quando l’aria era ferma. In fornaci incandescenti, fondevano sabbia silicea, soda e calce in crogioli profondi. Poi, con un tubo sottile, soffiavano nella massa incandescente, modellandola con gesti lenti, antichi, come una danza segreta. Oggi come allora, ogni oggetto in vetro soffiato è unico. Non solo per forma, ma per anima: porta dentro il respiro di chi l’ha creato.
E forse… in quella stanza, in un tempo che non sappiamo collocare, una donna infilava perle mentre un uomo soffiava luce. E la bellezza, silenziosa, si appoggiava sulle loro mani.
-Antonella di Scelgo l'Italia-
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